“Gesù percorreva tutte le città e i villaggi”: così inizia il Vangelo appena proclamato. Non è certo raro trovare Gesù in movimento; si può dire anzi che il suo ambiente preferito è la strada; non è certo un tipo sedentario, non è uno che ami le cattedre; insegna, certo, ma la sua scuola è per lo più itinerante. È spesso in viaggio e i suoi discepoli li educa camminando. Quando li chiama, non dice loro di sedersi, ma di seguirlo. L’ha interpretato benissimo San Paolo: facendo proprio il motto “guai a me, se non predicassi il Vangelo”, come abbiamo sentito nella seconda lettura, ha compiuto tre grandi viaggi, da una parte e dall’altra del mondo allora conosciuto. Il vescovo Geminiano è stato fedele discepolo di Gesù anche nello stile del cammino; era spesso in viaggio: o per fuggire l’imminente elezione a pastore di Modena, una fuga inutile, o per andare in Oriente chiamato dall’imperatore o per recarsi al Concilio di Milano del 390. E, dato che celebriamo in questa chiesa, si può ricordare come anche San Francesco abbia viaggiato, non solo in Italia, ma perfino nel lontano Egitto, andando ad incontrare il Sultano. Ma perché Gesù e i suoi discepoli, anzi, perché gli uomini viaggiano?
Nella Lettera alla città ho cercato di tenere davanti agli occhi la situazione dei migranti, specialmente dei profughi e dei rifugiati, che fuggono da condizioni di vita difficili o pericolose. Qualche volta è per loro questione di vita o di morte: quando abbandonano i loro paesi in guerra, quando cercano scampo dalla fame e dalla violenza, quando subiscono condizioni climatiche impossibili, sono costretti di fatto a lasciare gli affetti e la terra. Alcuni parlano in proposito di “viaggi della speranza”, che però facilmente diventano “viaggi della disperazione”, compiuti in condizioni difficili, tra stenti e violenze. Se questi viaggi, stampati nei volti di tante persone presenti tra noi, non ci interpellassero, dovremmo chiederci non solo quale livello di fede, ma quale livello di umanità stiamo vivendo.
È opportuno poi ricordare che ottant’anni fa, in seguito alle leggi fasciste “per la difesa della razza”, molti italiani ebrei furono costretti a emigrare, specialmente negli Stati Uniti; e che molti altri, prima e dopo di loro, dovettero espatriare perché perseguitati politicamente. Pochi giorni dopo la pubblicazione delle leggi razziali, e poche settimane prima di morire, papa Pio XI, che aveva già condannato le ideologie nazista e comunista, disse: “io non come papa, ma come italiano mi vergogno! (…) Mi preme il Concordato, ma più mi preme la coscienza” (Udienza a p. Tacchi Venturi, 24 ottobre 1938). È proprio la coscienza, la cifra fondamentale dell’umano, ad essere interpellata ogni volta che una persona è costretta a viaggiare per salvare la vita e la libertà.
Ma vi sono anche altri tipi di viaggio, meno drammatici, ma talvolta problematici. Molte persone emigrano per cercare una condizione di vita lavorativa migliore; dall’Italia sono ogni anno circa centomila, molti dei quali giovani. Mentre non è un dato drammatico – anzi per certi aspetti è una ricchezza – il fatto che migliaia di studenti italiani scelgano, temporaneamente o stabilmente, di frequentate scuole e università all’estero. Centinaia di milioni sono poi coloro che ogni anno si spostano per turismo, rendendo ormai il mondo davvero un “villaggio globale” (Mc Luhan), non solo per la rapidità delle informazioni, ma anche per le possibilità delle relazioni; certo, alcuni intraprendono viaggi turistici insani, alimentando le reti dello sfruttamento; ma la grande maggioranza dei turisti viaggia per curiosità, avventura, desiderio di conoscenza e distensione, arricchendo la propria umanità a contatto con le differenti culture e le bellezze artistiche e naturali.
Sono poi parecchi milioni i pellegrini, coloro cioè che viaggiano per raggiungere mete religiose significative e, qualche volta, per purificare se stessi alla ricerca dei valori spirituali. Il pellegrinaggio punta non tanto sulla meta, quanto sul cammino; in un certo senso nel pellegrino il percorso è più importante del traguardo, perché è la strada che fa maturare il pellegrino, lo sfida, lo interroga, gli manifesta i suoi limiti e le sue risorse, lo rende più disponibile all’ascolto della voce di Dio. Fin dall’inizio della storia cristiana la Terra Santa è stata meta di pellegrinaggi; nel Medioevo lo furono anche Roma, Santiago, Gerusalemme e Canterbury e poi tanti altri luoghi, tra i quali anche la tomba di San Geminiano.
Alcuni, infine, viaggiano come missionari, portando nel cuore il desiderio di annunciare il Signore a tutti, con le opere e le parole. I missionari cristiani nel mondo fanno propria quella “compassione”, mostrata da Gesù nel Vangelo di oggi, verso le persone “stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore”. Sono centinaia di migliaia, tra laici, sacerdoti e consacrati; alcuni operano in situazioni di persecuzione – non mancano ogni anno i missionari martiri – e moltissimi in condizioni di povertà e ingiustizia. Non dimentichiamo che in Duomo, a pochi metri dalla tomba di San Geminiano, riposa Luisa Guidotti, la dottoressa modenese uccisa in Africa nel 1979. È un esercito pacifico, che provoca ciascuno di noi ad essere missionario, pur rimanendo nel nostro paese; perché la missione cristiana non è una questione di chilometri, ma una questione di santità.
Vorrei proprio concludere con quest’ultimo tipo di viaggio, comune a Gesù, a San Paolo, a San Geminiano, a San Francesco e a tutti quelli che prendono sul serio l’invito di Gesù a seguirlo: il viaggio della santità. Più persone intraprendono questo viaggio e meno persone intraprenderanno i viaggi della disperazione, i viaggi obbligati da condizioni difficili e proibitive e i viaggi mossi dalla voglia di sfruttare i deboli. Più saranno i santi, i pellegrini del cuore e meno saranno gli operatori di iniquità e le vittime dell’ingiustizia. Questo è forse il viaggio più difficile di tutti, il viaggio interiore, che getta ponti tra le isole dell’egoismo, che scala le montagne della superbia, che attraversa le gallerie della paura. È però un viaggio necessario, se vogliamo alimentare la nostra umanità, iniettare nel mondo i germi della pace, testimoniare la bellezza del messaggio di Gesù e la sua “compassione” per l’uomo.