L’omelia integrale di Mons. Erio Castellucci
Forse mai come quest’anno il Vangelo colpisce nella sua nuda lettera: “quando preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto”. Nel sacrificio richiesto a molti fedeli, la rinuncia alla partecipazione personale alla Cena del Signore, è racchiusa un’opportunità: ritrovare il “segreto” della propria casa, della propria stanza, e riscoprire il cuore della preghiera, pur senza l’aiuto della comunità radunata: riscoprire, cioè, quel respiro dell’anima che fa riconoscere il bisogno di Dio; rientrare in se stessi, senza distrazioni, e leggere nel proprio cuore l’insufficienza delle risposte umane, il grido di senso che dalla fragilità terrena si alza verso l’infinita tenerezza di Dio. La preghiera – che sia lode, ringraziamento o supplica – è il respiro dell’anima, è il recupero dell’intimità con lo sguardo di Dio, è l’invocazione di una salvezza che non si trova già dentro l’uomo, se non come mancanza. Quando il profeta, nella prima lettura, chiede di lacerare il cuore e non le vesti, invita ad abbandonare la superficialità, il livello delle vesti, per attingere alla profondità, il livello del cuore. Se cambia il cuore, allora il Signore può operare dentro di noi; se cambiano solo le vesti, le apparenze, il Signore rimane alla superficie, ridotto ad un ornamento che abbellisce ma non incide.
La preghiera, in questi giorni, è soprattutto richiesta di salute del corpo e dell’anima. Del corpo, perché questo virus ha effettivamente colpito persone e famiglie; il suffragio per i defunti, l’orazione di intercessione per i malati e i loro familiari e la supplica per la cessazione dell’epidemia formano una sola grande preghiera, che diventa più efficace nella liturgia eucaristica. È la preghiera dei discepoli di Emmaus: “resta con noi, Signore, perché si fa sera”. E diventa richiesta di salute anche per l’anima: “si fa sera nel nostro intimo se tu nascondi il tuo volto, se ci lasci navigare al largo delle nostra fragilità”. Questa prova svela la debolezza umana, come quell’altra grande prova che otto anni fa si è abbattuta anche nelle nostre zone, il terremoto. Un’epidemia è come un’onda sismica invisibile, che colpisce di nascosto la vita delle persone e le tocca in profondità. È un nemico che crea un senso di precarietà, o meglio rammenta la precarietà della vita umana e ridesta la paura della morte. Noi siamo come l’erba, come ombra che passa, come foglie appese ai rami: i Salmi e la poesia universale ridondano di immagini come queste. Ma spesso non ci pensiamo e viviamo come se avessimo in mano il timone della nostra esistenza, come se ne fossimo i padroni e potessimo controllarla.
Gesù, di fronte alla fragilità umana da lui stesso assunta, ha evitato la rassegnazione, ha combattuto la paura. Non si è arreso alla malattia e al dolore, ha contrastato la radicata convinzione che fosse una punizione divina – l’ha escluso con le parole, ma soprattutto con i miracoli di guarigione e con la sua stessa innocente sofferenza – e ha segnato non solo la pista della preghiera, ma anche quelle dell’elemosina e del digiuno. La preghiera, quando è autentica, si trasforma infatti nella condivisione. La rinuncia alla partecipazione personale alla mensa del Signore non significa affatto rinuncia alla preghiera, al digiuno e all’elemosina. È piuttosto un’occasione per vivere la preghiera nella forma del digiuno – oggi per moltissimi persino del digiuno eucaristico – e nella forma dell’elemosina, della carità concreta.
Le proteste e i lamenti per le misure restrittive devono tradursi piuttosto in gesti di maggiore condivisione. È questo, del resto, lo scopo dell’eucaristia: partecipare al sacrificio della Messa e ricevere il corpo di Cristo non solo per vivere un momento mistico, ma anche e soprattutto per costruire il suo corpo vivo, la Chiesa, e contribuire alla crescita della società civile. Il pane consacrato va condiviso non solo all’altare, ma anche nella comunità e nella città. Il “bene comune” richiedeva questa rinuncia. E se si può pensare che le misure precauzionali di questa settimana siano eccessive – tutti speriamo in realtà che siano eccessive, ma lo sapremo solo in futuro – noi cristiani le possiamo vivere come invito ad una maggiore attenzione verso le membra più deboli del corpo di Cristo.
Il digiuno, allora diventa condivisione con coloro che per costrizione, e non per libera scelta, si nutrono scarsamente: o per miseria o per malattia; e l’elemosina diventa condivisione dei propri beni – tra i quali il tempo, le energie, l’affetto – con chi sta vivendo momenti difficili. Preghiera, elemosina e digiuno non sono gesti episodici ma stili di vita. Basta poco per creare nella vita ordinaria di una famiglia – e non solo in questa circostanza straordinaria – un clima di preghiera, magari con un semplice segno di croce prima dei pasti. E non occorre molto per assumere uno stile costante di sobrietà, nel cibo, nell’uso delle cose, nella relazione con il creato. Così come la condivisione dei beni materiali, affettivi e spirituali in casa prende avvio dall’attenzione ai familiari più fragili. È bello, in questi faticosi giorni, sentire come crescano le prassi di buon vicinato e le attenzioni degli operatori, delle associazioni, dei volontari e delle comunità cristiane verso coloro che sono colpiti dalla malattia. Speriamo che si diffonda questa sensibilità, tradotta in gesti semplici come una breve visita per informarsi sullo stato di salute, o la disponibilità a fare la spesa o a pagare una bolletta per una persona anziana o inferma che non può uscire o che, uscendo, si metterebbe a rischio. Il tempo della crisi sia vissuto come tempo delle opportunità, tempo per una preghiera, una sobrietà e una condivisione che, a partire dal “segreto” delle case, si allarga, come un contagio positivo, sull’intera comunità cristiana e civile. Un’epidemia benefica, questa sì provocata e sostenuta dal Signore.