La storia di Elisa Fangareggi, 32 anni, madre di tre bambine: avvocato in Italia, volontaria in Medio Oriente
«Anche questa notte mi hanno scritto che vogliono ammazzarmi. Ma ormai ci sono abituata, non me ne frega niente». Non si scompone nemmeno più, Elisa Fangareggi, quando racconta delle minacce di morte o degli insulti che quotidianamente riceve via internet. Se per caso un giorno qualcuno vi informasse di aver avvistato una giovane avvocatessa modenese, con uno zaino in spalla pesante 40 chili, sul confine tra Siria e Turchia, a metà strada tra le bombe della guerra civile e la fame dei campi profughi, statene certi: il legale in questione è lei. Trentadue anni, sposata, madre di tre bambine (14, 3 e 2 anni), Elisa dalla primavera del 2011 fa la spola avanti e indietro da Modena al Medio Oriente: in Italia, oltre ad esercitare la professione forense (ramo civilistico), raccoglie fondi e beni di prima necessità che poi, tramite lassociazione Time 4 Life, lei stessa trasporta alle popolazioni ferite da un conflitto che pare non avere mai fine. Elisa, a 32 anni sei moglie, madre, avvocato e volontario in zone di guerra: hai già vissuto esperienze che a certuni non capitano mai nellarco di una vita. «Me lo dicono tutti. Semplicemente ho sempre pensato che la vita è breve e ogni ora è preziosa. Cerco sempre di dare il massimo: nello studio, in famiglia e quando lavoro. Un vantaggio che ho è che dormo pochissimo, 2-3 ore a notte, e così ho più tempo a disposizione. Di giorno mi dedico alla Siria e di notte preparo gli atti nel silenzio della casa». E anche una vita di sacrifici, però. «Sì, niente film, niente musica… E i miei pasti consistono spesso in barrette energetiche. Sono sempre attaccata a telefono o computer. Tanti sacrifici, sì, ma i risultati ci sono e la soddisfazione è grande». In famiglia come vivono i tuoi mille impegni? «Sono una moglie un po assente: per fortuna ho un marito che mi sopporta e che faranno sicuramente santo… Come mamma, cerco di dare il massimo: ogni giorno mi prendo qualche ora da dedicare esclusivamente alle mie figlie». Alle vicende medio-orientali ti sei avvicinata tramite un amico siriano. «Firas, sì. E come se fosse mio fratello: siamo legatissimi, non passano due ore al giorno senza sentirci. A marzo 2011 ha visto che la situazione in Siria stava prendendo una brutta piega e, prima che le frontiere venissero bloccate, ha preso la sua famiglia e lha portata a Dubai. Mi disse che voleva fare qualcosa per chi era ancora nel Paese». E avete cominciato a portare aiuti… «Allinizio cercavamo di far entrare farmaci e alimenti speciali per i bambini, poi la situazione è via via degenerata. Oggi ad Aleppo vivono tutti stipati nelle poche case rimaste in piedi: in 50 metri quadri stanno fino a 20-30 persone. Si mangia quando e se ce nè e lacqua potabile non si trova. Si dorme sentendo il rumore delle altre case che saltano in aria e dei cecchini che sparano. Nei campi profughi, invece, la situazione è leggermente migliore, ma comunque allucinante: ci sono bambini senza scarpe, il cibo è centellinato e i neonati mangiano pappe fatte di acqua e farina». Come vi muovete in uno scenario del genere? «Allinizio portavamo gli aiuti oltre il confine a mano: andavamo un paio di volte al mese con una quarantina di chili a testa. Adesso, però, non basta più. Partiamo con i container dallItalia, ci vogliono sui 4-5 giorni ad arrivare, ma alle volte veniamo bloccati alla frontiera: in quel caso, andiamo a piedi zaino in spalla, passando attraverso varchi con laiuto di gente del posto. Varcato il confine, sembra di arrivare ad Auschwitz: vedi bambini che hanno fame, tremano dal freddo e tossiscono sangue. E quando entri in Siria devi sempre sperare che le frontiere non vengano chiusi». Vi è mai capitato di rimanere bloccati dentro il Paese? «Sì, a quel punto hai due strade: o tenti di superare la frontiera viaggiando nella notte a fari spenti, sperando di non imbatterti nelle truppe di Assad, o resti in città, con il rischio di finire sotto i bombardamenti. Io di solito preferisco rimanere, rifugiandomi nelle cantine. Di finire in mano alle forze pro-regime non mi va: non dico che ci fucilerebbero, ma il rapimento lo rischi». Cosa ti spinge a fare tutto questo? «Lessere madre. Io mi sento madre non solo delle mie figlie, ma di tutti i bambini. In fin dei conti, i nostri figli non patiscono la fame e vivono al caldo. Penso allora alle madri siriane, che vedono i loro bambini affamati, al freddo e magari senza scarpe». Per la tua attività, però, ricevi anche diverse minacce. Da parte di chi? «Sono sia siriani sia italiani che appoggiano il regime di Assad. Sono ridicoli, non me ne frega niente: se vado ad Aleppo sotto le bombe, non mi fermo certo davanti a queste cose. Recentemente mi sono tatuata la rosa di Aleppo, simbolo della primavera siriana, con una F: F come il nome del mio amico Firas e come la sua famiglia, Fares, che è anche la mia famiglia. Mi è arrivato un messaggio: F come Fassi. Allinizio non capivo, poi ho saputo che Fassi è una marca di gru e ho collegato: in Siria i ribelli vengono impiccati alle gru… Ma mi scivola addosso, sono ridicoli». Che idea ti sei fatta sulle possibili evoluzioni della situazione siriana? «Non lo so, la sensazione che ho è che la guerra durerà ancora a lungo. Nessuno nella comunità internazionale interviene, perché in Siria non cè petrolio. I siriani sono abbandonati a loro stessi». In questi mesi Modena ha vissuto e sta vivendo il dramma del terremoto. Come lhai vissuto? «Molte persone, anche da noi, hanno vissuto disagi importanti e hanno provato cosa significa avere paura a casa propria. Questo credo abbia aiutato a comprendere meglio la situazione dei profughi siriani. Dopo il sisma ho notato grande solidarietà da parte dei modenesi: in questo senso, il terremoto ci ha aiutato». nEnrico Mingori