L’Arcivescovo di Modena e Nonantola Monsignor Erio Castellucci ha inviato una lettera ai sindaci modenesi chiedendo di appoggiare la graduale ripresa anche del culto nella “fase due”
Gentili Sindaci,
nel corso della drammatica vicenda di pandemia da coronavirus, vi scrivo, come primo responsabile delle comunità cattoliche dei nostri territori, in vista della “fase due” che prenderà avvio tra pochi giorni. Pur consapevole di una possibile strumentalizzazione politica, ho pensato di inviarvi questa Lettera aperta, che tocca anche corde sensibili del periodo che stiamo vivendo.
Si sono consumati e continuano a consumarsi grandi drammi, sebbene in una misura che si va riducendo e, speriamo, estinguendo. Prima di tutto ricordo i defunti a causa del contagio, gli ammalati e i loro familiari; ma poi anche gli altri ammalati, ai quali sono stati inevitabilmente rimandati ricoveri, diagnosi, terapie e interventi; le persone già prima fragili e psichicamente labili, bombardate da notizie negative, i disabili, gli anziani, i vecchi e nuovi disoccupati, gli indigenti, le famiglie in difficoltà materiale o relazionale… è un elenco purtroppo incompleto, da voi del resto ben noto. Vorrei aggiungere però la menzione della gravissima rivolta nella Casa circondariale Sant’Anna di Modena, l’8 e 9 marzo scorsi, nella quale sono morti nove detenuti ed altre persone sono state ferite. Un segnale tragico, che ha lasciato emergere tanta disperazione spesso sommersa, legata anche al sovraffollamento delle carceri che affligge il nostro Paese. Sono settimane in cui ci sentiamo frastornati e impauriti; solo ora ci stiamo orientando, prospettando un graduale allentamento delle misure, in corrispondenza del contenimento dell’epidemia. Ma rimarranno centinaia di immagini impresse nei nostri occhi: una per tutte, i trentuno feretri portati dai camion dell’esercito da Bergamo a Modena, in fila per il cimitero di San Cataldo, oltre un mese fa. La solitudine rende ancora più oscura la morte.
Desidero poi ringraziarvi, in questo quadro, per l’impegno intenso che state esprimendo a tutti i livelli, sia nel rapporto con le altre istituzioni, sia nella relazione attenta con i cittadini. Anche i parroci delle nostre Diocesi mi hanno espresso ripetutamente la loro riconoscenza nei vostri confronti. Stiamo attraversando la più grande crisi planetaria dopo la Seconda guerra mondiale e voi, con i vostri collaboratori, siete tra coloro che si collocano in prima linea, insieme a medici, infermieri, operatori sanitari, forze dell’ordine, volontari e Protezione civile, lavoratori impegnati nelle attività rimaste attive sul campo o a distanza: generi alimentari, operatori ecologici, farmacie, edicole e operatori della comunicazione, negozi, banche e poste, assistenti familiari, psicoterapeuti, insegnanti…. Anche questo elenco è incompleto; ma vi aggiungo volentieri i presbiteri, i diaconi, gli altri ministri delle comunità e collaboratori pastorali, soprattutto quelli coinvolti nell’assistenza e nell’educazione. E desidero ringraziare anche quei medici e infermieri che, in prossimità della Pasqua, si sono offerti, su mandato dei Cappellani ospedalieri, anche come ministri straordinari della comunione per il malati di Covid-19. Un esercito di pace e consolazione, un grande solidale abbraccio, che fa riferimento soprattutto a voi per il coordinamento e il consiglio.
Come Chiesa cattolica, a partire dal 23 febbraio scorso e per oltre due mesi, abbiamo aderito con convinzione alle disposizioni governative della “fase uno”, anche cercando di contenere proteste – talvolta accompagnate da insulti e maledizioni verso i vescovi “pavidi”, “igienisti” e “governativi” – e soprattutto appoggiando e motivando le misure limitative di alcune libertà costituzionali, come quella di movimento e di culto. Questi provvedimenti stanno dimostrando giorno dopo giorno la loro efficacia: sappiamo bene che altre nazioni, dopo un iniziale scetticismo, li hanno a loro volta adottati per lottare contro la pandemia. I cristiani del resto, per essere tali, devono essere dei buoni cittadini: e il dovere di custodire la salute propria e altrui, specialmente quella delle persone più deboli ed esposte, richiede un’attenzione primaria rispetto a qualsiasi diritto. In termini cristiani si chiama “carità”: per questo i vescovi italiani hanno respinto con decisione i tentativi di forzare in qualsiasi maniera le disposizioni, richiamando i princìpi di precauzione, di responsabilità e di solidarietà, conformi al Vangelo e all’ordinamento democratico.
Questa adesione, piena e convinta, non ha però impedito di notare alcune oscillazioni e incongruenze nelle iniziali disposizioni. Nelle prime due settimane, tra il 23 febbraio e il 7 marzo compreso, a causa del giusto divieto di assembramento, era esclusa ogni liturgia con la presenza di fedeli (con un’incertezza domenica 1 marzo), ma era permesso ad esempio frequentare palestre, bar, piscine, biblioteche e ristoranti. Questo confronto strideva e rendeva particolarmente difficile contenere le proteste. Dall’8 marzo ad oggi, con qualche variazione l’11 marzo (chiusura di bar e molti negozi), rimangono aperti solo i servizi definiti essenziali o di sussistenza, con le ovvie e necessarie precauzioni (mascherina, distanza, igiene): esercizi commerciali, farmacie, edicole, banche, servizi postali tabaccherie. Rimangono aperte anche le chiese – non sono mancate le richieste, da parte di alcune persone, per chiuderne le porte – ma senza celebrazioni pubbliche. Tutto questo è stato accettato e sostenuto anche dalla Chiesa per il bene comune. Si è poi puntata l’attenzione sulla “fase due”, con l’annunciata possibilità di riprendere gradualmente anche la vita comunitaria dei fedeli.
Prima di procedere, però, vorrei aggiungere un’osservazione, che raccolgo da conferenze di esperti e da educatori o semplici cittadini. La scelta di continuare ad offrire quasi esclusivamente servizi per l’alimentazione e la salute è comprensibile e giustificata (con l’eccezione, lo metto tra parentesi, delle dipendenze: tabacco e lotterie); ma esistono, oltre ai beni materiali, che sono la base per la vita biologica, anche dei beni relazionali e dei beni spirituali, che contribuiscono insieme al “benessere” globale della persona: corpo, affetti, mente, anima. La caduta verticale delle possibilità di relazione diretta – penso soprattutto a bambini, disabili e anziani – in alcuni casi produce conseguenze difficili da sanare. Non tutti i bambini e ragazzi hanno potuto proseguire la scuola, perché alcuni non hanno la possibilità di collegarsi a internet; molti disabili, ad esempio i ragazzi down, hanno patito il distanziamento come rifiuto; e alcuni anziani non hanno potuto vedere di persona i loro figli o nipoti per settimane. Con tutte le misure necessarie, non era impossibile attivare gli insegnanti di sostegno e permettere con maggior fluidità l’incontro dei familiari lontani con i loro congiunti.
Per quanto riguarda i beni spirituali, mi limito ad accennare all’attività della Chiesa. Come cattolici, non abbiamo alcuna soluzione pronta: non è certo il tempo di ricette, né tantomeno di polemiche; è per tutti il tempo dell’ascolto e della prossimità. Le nostre comunità diocesane in questi mesi sono invitate a purificarsi, a guardarsi bene dentro, a snellirsi, a “igienizzarsi” anche dal punto di vista pastorale, ammettendo dei limiti (ad esempio nella presentazione dell’immagine di Dio e nella predicazione della vita eterna) e cercando i modi più adeguati per essere fedeli al Vangelo, e quindi agli uomini di oggi. Stiamo portando avanti in queste settimane, nelle due diocesi, la consultazione dei ministri, e stiamo per avviare l’ascolto di tutto il popolo di Dio, per lasciarci provocare e rinnovare da questa faticosa esperienza di pandemia. Tutto fa pensare che dovremo presto affannarci di meno nell’organizzazione e occuparci di più della relazione, legarci di meno a spazi e strutture e concentrarci di più sulla vicinanza alle persone, nelle loro fragilità e nella loro vita quotidiana. La creatività che parrocchie, gruppi, associazioni e singoli stanno mettendo in campo è stupefacente e dimostra una grande vitalità e un desiderio di recuperare l’essenziale. Papa Francesco ce lo sta chiedendo da sette anni: ora occorre davvero il coraggio di affrontare una dieta evangelica, arrivando anche a scelte faticose riguardanti la semplificazione burocratica e la dismissione di strutture. In alcuni casi, sarà lo stesso impoverimento delle parrocchie, delle scuole cattoliche, di alcuni enti ecclesiastici e della diocesi stessa a dettarci questa agenda. Una comunità cristiana “sanificata” potrà contribuire meglio al bene spirituale delle persone, che non è meno importante dei beni materiali e relazionali, perché concerne il senso stesso della vita.
E proprio per queste considerazioni, la “fase due” – che prevedibilmente durerà fino alla pratica generalizzata del vaccino – non può essere portata avanti con disposizioni decise unicamente al centro, ma deve avvalersi di voci della società civile, della quale voi siete tra i migliori ascoltatori e interpreti. La “fase due” non può essere impostata come se si trattasse di allentare dei pezzi di corda, di concedere delle piccole aperture a singhiozzo, di allargare le maglie a malincuore; può essere efficace solo se concertata insieme ai rappresentanti della base sociale. Per quanto ci riguarda come Chiesa, non rivendichiamo l’occupazione di spazi o particolari prerogative, ma crediamo di poter continuare ad offrire un servizio alle persone. A voi risulta chiara la valenza “socialmente utile” della Chiesa, perché amministrate direttamente il territorio e siete in continuo contatto con le parrocchie e i sacerdoti, gli enti e le associazioni, i volontari e le diverse iniziative. Ma sembra che a livello centrale invece questa chiarezza non ci sia e, non da oggi, abbiamo l’impressione che “la Chiesa” appaia qualche volta come parte del problema piuttosto che come partner della soluzione.
Di qui il fermo “disaccordo” espresso dalla Cei ieri sera, due ore dopo la conferenza stampa del Presidente del Consiglio, che ha accennato alla dimensione spirituale e celebrativa come se fosse una “concessione”, e solo per quindici persone e per i funerali, meglio se all’aperto… Questa mattina, nella lunga riunione in video-collegamento dei vescovi della Regione, abbiamo anche esaminato il particolare momento di tensione tra la Cei e il Governo. Non c’è alcuna “rabbia” o “ira” – secondo alcuni titoli dei giornali – ma c’è solo il disappunto unanime per quella che appare una sottovalutazione delle potenzialità delle nostre comunità e una visione antropologica limitata ad una dimensione: se nell’emergenza è evidente che occorra privilegiare a tutti i costi la salute e gli alimenti, nella “fase due” è necessario integrare – con tutte le precauzioni – anche le altre dimensioni, i beni relazionali e quelli spirituali. Ciò che vale per negozi, supermercati, fabbriche e uffici non deve valere anche per le forme di partecipazione e le attività spirituali?
Ci stiamo interrogando con franchezza e ampiezza, nelle nostre comunità, sulla possibilità di vivere la “fase due” non come semplice attesa della “fase tre”, ma come tempo di maturazione e conversione, di incontro – nelle modalità possibili – e servizio. Non esiste, nell’esperienza cristiana, il tempo della parentesi; esiste il tempo della purificazione, che può comportare anche silenzio e meditazione. Ma proprio perché questo tempo possa essere vissuto in modo “pieno”, attivo e propositivo, abbiamo la necessità di immaginare ed elaborare liberamente – rigorosamente dentro i parametri sanitari chiesti a tutti gli altri – l’attività pastorale. Ci stiamo quindi interrogando su come poter gradualmente tornare a celebrare con il popolo di Dio, assicurando il distanziamento vigilato, i dispositivi igienici, la pulizia e l’eventuale turnazione. Le Caritas, le mense diocesane e tanti volontari (basta citare per tutti l’Agesci) stanno coordinando i servizi primari in modo rigidamente conforme alle normative: certo la loro esperienza sarà di aiuto anche nella ripresa graduale delle celebrazioni nelle chiese, per le quali è comunque in arrivo un protocollo nazionale, su cui lo stesso Governo sta lavorando. Ci stiamo poi interrogando su tanti altri aspetti della vita di fede, di annuncio e catechesi, anch’esse provate da questa epidemia; ci stiamo chiedendo come poter continuare a svolgere, nelle forme permesse, il servizio educativo in estate e anche dopo; i “centri estivi” vengono già richiesti da alcuni genitori, che torneranno presto al lavoro e non possono contare su nonni o su baby sitter: e se è chiaro che non si potranno svolgere nei prossimi mesi dei campeggi, è auspicabile invece – secondo un protocollo regionale in preparazione – che vi siano dei centri diurni, perfettamente in regola con le normative. Dopo l’estate, poi, potranno riprendere anche oratori e doposcuola, nelle modalità nuove che dovranno essere studiate. Ci stiamo interrogando infine su come continuare al meglio e in sicurezza l’opera di assistenza delle persone povere, coordinata dalle Caritas, dai Centri di ascolto e dagli altri Enti; l’assistenza delle persone traumatizzate, con l’aiuto dei due Consultori diocesani; l’accompagnamento delle persone in difficoltà e un “paracadute“ per i disoccupati. Non abbiamo molte forze e siamo consapevoli delle nostre povertà, per quanto ci dia un momento di respiro l’elargizione straordinaria che la Cei in questi giorni sta predisponendo per tutte le Diocesi. Ma siamo comunque disponibili, come e più di prima, a collaborare con voi, ad offrire il nostro piccolo contributo per il bene comune, messo così tanto alla prova dalla pandemia.
Però deve essere chiaro che “la Chiesa non è una ONG” (papa Francesco, 14 marzo 2013): l’attività delle comunità cristiane, cioè, non si fonda semplicemente su motivi filantropici e umanitari; si fonda sulla fede nella parola di Dio, sulla forza della celebrazione eucaristica e dei sacramenti, sull’accoglienza e la valorizzazione dei doni dello Spirito Santo. Sono queste le ragioni motivazionali e morali, per dirla in termini laici, che costituiscono il tessuto delle nostre comunità e danno energia agli operatori. In altre parole, quelli che sopra ho definito beni spirituali, per noi cristiani non sono un contorno eventuale e facoltativo al servizio, ma ne sono il cuore. L’esperienza dei beni spirituali motiva l’impegno per la cura dei beni relazionali; e dentro la relazione stessa con le persone emerge il servizio che si esprime nell’aiuto anche attraverso i beni materiali. Tutto è connesso. Come si legge nelle ultime righe del citato Comunicato di ieri sera della Cei: “Dovrebbe essere chiaro a tutti che l’impegno al servizio verso i poveri, così significativo in questa emergenza, nasce da una fede che deve potersi nutrire alle sue sorgenti, in particolare la vita sacramentale”.
Non chiediamo quindi a voi Sindaci null’altro che di appoggiare questa graduale ripresa nella “fase due”, custodendo – come già fate e ve ne sono grato – la particolare natura della comunità cristiana, perché possa continuare ad essere uno dei soggetti che concorrono all’edificazione del bene comune, un soggetto sociale che vive di una dinamica interiore propria e specifica.